Alcune persone sembrano rimanere imperturbabili anche nelle situazioni più snervanti. Altre invece preferirebbero morire piuttosto che stare sedute a guardare un film horror oppure intrattenersi in luoghi inquietanti o avere a che fare con persone che suscitano sensazioni di ambiguità e incertezza nei loro modi di fare, atteggiamenti o aspetto fisico.
Il ragno che si arrampica sul muro accanto al tuo letto. Qualcuno che bussa alla tua porta a tarda notte. Il tizio che ti sta un po’ troppo vicino in metropolitana. Cimiteri invasi dalla vegetazione. Clown. Tutti stimoli che generano maggiore o minore inquietudine.
Sebbene la sensazione esista probabilmente da quando gli esseri umani hanno iniziato a provare emozioni, è stato solo a metà del XIX secolo che per la prima volta appare l’espressione mettere “i brividi” (“creepy”, intesa come inquietudine).
Le prime descrizioni della sensazione di inquietudine
È a Charles Dickens che viene attribuito il primo utilizzo della frase, nel suo romanzo del 1849 David Copperfield, per indicare un brivido spiacevole e formicolante lungo la schiena. Negli anni successivi al libro, l’uso di “inquietante” per descrivere qualcosa che causa disagio ha preso piede: una ricerca su Google Ngram mostra che l’istanza della parola è aumentata drasticamente dal 1860 circa.
La reazione psicologica di inquietudine (creepiness) è sia spiacevole che confusa ed è spesso accompagnata da sintomi fisici come la sensazione di freddo o di brividi (Leander, Chartrand e Bargh, 2012). I ricercatori hanno scoperto che quando i soggetti si sentivano inquieti, percepivano più freddo e credevano che la temperatura nella stanza fosse effettivamente scesa.
Data la sua pervasività nella vita sociale quotidiana, è molto sorprendente che non sia stata approfondita così tanto in modo scientifico.
Quando si ha a che fare con individui che mostrano livelli inappropriati di mimica non verbale durante l’interazione sociale, ad esempio, si percepisce una vera e propria sensazione fisica di freddo.
La spiegazione del fenomeno è che tale comportamento non verbale risulti non normativo e che ciò possa segnalare un disallineamento sociale, mettendoci in guardia da un interlocutore freddo e potenzialmente inaffidabile.
Il fatto che molte percezioni di minaccia, sociale e non, spesso si accompagnino a sensazioni di “brividi” è coerente con l’idea che il nostro indice di inquietudine sia in realtà un segnale di difesa contro un qualche tipo di evento avverso.
Ma da cosa esattamente ci stiamo mettendo in guardia?
Non può essere solo un chiaro avvertimento di danno fisico o sociale. Un rapinatore che ti punta una pistola in faccia e ti chiede soldi è sicuramente minaccioso e terrificante. Eppure, la maggior parte delle persone probabilmente non userebbe la parola “inquietante” per descrivere questa situazione.
McAndrew e Koehnke (2016) definiscono la creepiness percepita come ansia suscitata dall’ambiguità se ci sia qualcosa da temere o meno e/o dall’ambiguità della natura precisa della minaccia che potrebbe essere presente.
Ti senti a disagio perché pensi che ci potrebbe essere qualcosa di cui preoccuparti, ma i segnali non sono abbastanza chiari da giustificare la messa in atto di un comportamento disperato e salvavita.
Tale incertezza e imprevedibilità costituiscono i criteri fondamentali che definiscono la sensazione di inquietudine, i quali provocano una paralisi su come si dovrebbe reagire.
Pertanto, i ricercatori, sostengono che “inquietante” sia una caratteristica qualitativamente diversa da concetti correlati come “terrificante” o “disgustoso” in cui le conclusioni tratte sulla situazione o sulla persona in questione sono molto più chiare (McAndrew & Koehnke, 2016).
Nella situazione di aggressione, ad esempio, non c’è ambiguità sulla presenza o sulla natura della minaccia.
L’inquietudine suscitata da interazioni sociali
L’inquietudine percepita a livello sociale, ad esempio, è correlata al fatto che alcuni individui infrangendo regole e convenzioni sociali tacite, siano percepiti come ambigui e imprevedibili, anche se a volte quella violazione delle regole è per loro necessaria.
Ciò diventa evidente quando guardiamo ai tipi di lavori che generano inquietudine. Tassidermisti e direttori di pompe funebri, ad esempio, erano tra le professioni più inquietanti elencate nel sondaggio di McAndrew e Koehnke (2013). Probabilmente perché queste persone interagiscono abitualmente con cose macabre che la maggior parte delle altre persone eviterebbero.
“Se hai a che fare con qualcuno che è veramente interessato alle cose morte, questo fa scattare i campanelli d’allarme perché se sono diversi in quel modo, in quali altri modi spiacevoli potrebbero essere diversi?” dice McAndrew.
I netturbini, che hanno anche a che fare con cose che le persone preferirebbero evitare, non sono stati considerati inquietanti; evidentemente, il tipo di cosa che viene evitata deve essere simbolica o correlata a una minaccia latente.
Gli intervistati hanno trovato inquietante anche il fascino per il sesso. Anche possedere un sexy shop, infatti, è stata considerata una professione inquietante, poiché il proprietario potrebbe essere percepito come una persona potenzialmente viscida e legata a minacce sessuali.
Il curioso senso di inquietudine generato dai clown
Comunque, la professione di gran lunga più inquietante, secondo il sondaggio, è stata quella del clown.
I clown sono per natura imprevedibili e difficili da comprendere. Il trucco maschera i loro lineamenti e i segnali facciali e in genere fanno cose al di fuori della norma sociale, come dare eccessiva confidenza o gesti di affetto (abbracci inaspettati). Quindi sono spesso percepiti come inquietanti piuttosto che divertenti (McAndrew, 2017).
Un comune fattore scatenante della creepiness nei contesti sociali, infatti, è la natura mascherata, camuffata o opaca di un’altra persona (McAndrew e Koehnke, 2016, Park, 2018).
In tali casi, è difficile cogliere lo stato mentale e le intenzioni di quella persona e questa sensazione di ignoto provoca percezioni di inquietudine. Lo stato di essere mascherati può essere figurativo, nel senso della sensazione che una persona stia nascondendo le proprie vere emozioni, o letterale, come nel caso dei clown.
La regola del meglio aver paura che prenderle
Per tutte queste considerazioni l’inquietudine è stata definita come una forma d’ansia, in quanto si attiva in condizioni in cui la minaccia non è nè chiara nè al momento presente, tuttavia innescata da elementi ambigui e non “convenzionali”.
Il meccanismo di attivazione è ormai noto ed è stato proposto per la prima volta dagli psicologi evoluzionisti (Atran, 2002; Barrett, 2005). Tali meccanismi si sono evoluti per proteggerci dai danni causati da predatori e nemici, cercando di garantirci le migliori chances di sopravvivenza.
Se cammini lungo una strada buia e senti il rumore di qualcosa che si muove nel vicolo vicino a te, risponderai con un livello di attivazione elevato e un’attenzione fortemente focalizzata, ti comporterai “come se” ci fosse un reale pericolo che sta per farti del male.
Se si scopre che è solo una folata di vento o un gatto randagio, hai perso poco reagendo in modo eccessivo, ma se non riesci ad attivare la risposta di allarme quando in realtà c’è una minaccia presente, il costo del tuo errore di calcolo potrebbe essere piuttosto alto. Quindi, gli esseri umani si sono evoluti per peccare di eccesso di zelo in relazione alle minacce in tali situazioni ambigue. Quindi, non è la chiara presenza del pericolo che ci fa sentire inquieti, ma l’incertezza se il pericolo sia presente o meno.
Alcuni studi a riguardo
Szczurek, Monin e Gross (2012) hanno scoperto che desideriamo mantenere una maggiore distanza sociale tra noi e gli individui che mostrano un’espressione inappropriata o non normativa delle emozioni.
Leander et al. (2012) hanno indicato che un comportamento non verbale inappropriato può fungere da segnale di inquietudine: sarebbe considerato maleducato e imbarazzante scappare da una persona “inquietante” che non ha fatto nulla di palesemente minaccioso. D’altro canto, potrebbe essere pericoloso ignorare il tuo intuito e rimanere in un’interazione pericolosa. Questa ambivalenza ti lascia congelato sul posto, paralizzato nel disagio.
Sensibilità all’inquietudine come tratto personale
Un recente studio (McAndrew et al. 2023) si è proposto di esplorare il ruolo svolto dall’incertezza e dall’ambiguità di certe situazioni o persone nell’innescare un senso di inquietudine.
I ricercatori si sono proposti, inoltre, di capire se esistano tratti della personalità che predispongano alla suscettibilità riguardo l’essere “inquieti”. Nello loro studio, un campione misto di 278 studenti universitari e adulti, reclutati tramite piattaforme di social network, hanno compilato scale che misuravano la loro tolleranza all’ambiguità e la loro suscettibilità alla “not just right experience”.
Le “esperienze non proprio giuste” (NJRE) si caratterizzano per percezioni e sensazioni che qualcosa dentro di sé o nell’ambiente circostante non sia esattamente “giusto”. Le NJRE sono sensazioni che rientrano in una categoria più ampia di fenomeni sensoriali. Si tratta di esperienze soggettive scomode o angoscianti (Miguel et al., 2000).
Le “just right perceptions” (percezioni proprio giuste) sorgono in risposta a determinati stimoli tattili, visivi o uditivi e creano il desiderio che le cose si sentano, sembrino o vadano in un certo modo. Possono anche emergere da sentimenti interni di incompletezza e disagio interiore, che a loro volta provocano l’esecuzione di una determinata azione finché il soggetto non sperimenta una sensazione di sollievo. Pensate banalmente all’effetto che vi provoca l’osservare un quadro storto senza la possibilità di intervenire.
I soggetti della ricerca, in seguito, sono stati sottoposti alla visione di 25 immagini (12 di controllo o neutre e 13 valutate come “creepy” o inquietanti in seguito a un precedente sondaggio).
I risultati dell’indagine
In effetti, i ricercatori hanno scoperto che essere meno tolleranti all’ambiguità e avere spesso “not just right experiences” ha effettivamente portato gli individui a essere più facilmente confusi e spaventati da immagini inquietanti.
Questi tratti della personalità hanno anche previsto quanto tempo i partecipanti allo studio hanno trascorso a guardarle: entrambe le misure erano negativamente correlate al tempo trascorso a guardare immagini confuse o inquietanti.
È importante notare che questi stessi tratti della personalità erano irrilevanti per prevedere le reazioni degli individui alle immagini di controllo che hanno incontrato nello studio.
I risultati hanno indicato inoltre che le donne erano generalmente più facilmente spaventate da immagini inquietanti e confuse rispetto agli uomini.
I risultati supportano la conclusione che gli attuali modelli di inquietudine sono corretti; l’esperienza emotiva di sentirsi “inquieti” sembra effettivamente essere innescata principalmente dalla necessità di risolvere un’ambiguità.
Future implicazioni
Grazie a una maggiore comprensione della psicologia dell’inquietudine, le possibili applicazioni nella vita reale di tale concetto, potrebbero risultare molto vantaggiose.
Basti pensare alle tecnologie con cui interagiamo quotidianamente che stanno diventando sempre più simili a quelle umane. Gli assistenti domestici intelligenti hanno preso piede in molte famiglie.
Sebbene abbiano molte capacità utili, hanno anche caratteristiche che vengono descritte colloquialmente come inquietanti, un fatto che potrebbe scoraggiare i potenziali utenti dall’adottare e utilizzare tali dispositivi. A questo proposito, ci sono state numerose segnalazioni di assistenti domestici che hanno scioccato i proprietari emettendo suoni spettrali di risate da strega nel cuore della notte o attivandosi all’improvviso ed elencando i nomi delle pompe funebri vicine (Raff et al., 2024).
In questi casi la creepiness si innesca quindi quando gli stimoli che riceviamo risultano simili a quelli che un essere umano farebbe, ma sono prodotti da macchine, il che rende la percezione dello stimolo ambigua e inquietante.
A livello visivo accade la stessa cosa: quando i criteri di definizione umano-robot si assottigliano la sensazione di inquietudine si fa sempre più forte.
Il concetto di Uncanny valley, traducibile come valle perturbante o valle inquietante, è un’ipotesi presentata dallo studioso di robotica nipponico Masahiro Mori. Lo studioso riporta come la piacevolezza e la sensazione di familiarità sperimentata verso robot e automi antropomorfi possa aumentare al crescere della loro somiglianza con la figura umana, fino ad un punto in cui l’estremo realismo rappresentativo produce però un brusco calo delle reazioni emotive positive, a causa della non realisticità perfetta e creando ambiguità e incertezza, destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine paragonabili al perturbamento.
Neurofisiologia della creepiness
Per indagare cosa accade nel nostro cervello quando entriamo nella Uncanny Valley, i ricercatori hanno studiato i modelli cerebrali di 21 individui sani utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI), un dispositivo che misura i cambiamenti nel flusso sanguigno in diverse regioni del cervello (Rosenthal-von der Pütten et al., 2019).
Per prima cosa, ai partecipanti sono state mostrate diverse immagini di umani e robot sempre più vicini al concetto di antropomorfismo. È stato poi chiesto loro di chi si sarebbero fidati per scegliere un regalo personale, un regalo che un umano avrebbe gradito. Il team ha scoperto che i partecipanti in genere preferivano i regali degli umani o degli agenti artificiali simili, ad eccezione di quelli che erano più vicini al confine tra umano e robot, la Uncanny Valley.
Misurando l’attività cerebrale durante questi compiti, i ricercatori sono stati in grado di identificare che le regioni cerebrali, quali la corteccia visiva e la corteccia prefrontale mediale (un’area coinvolta nella creazione del sistema di valori di una persona), erano coinvolte nella creazione della sensazione di disagio associata alla Uncanny Valley.
Allo stesso modo, il campo in rapida evoluzione della realtà virtuale (VR) può trarre vantaggio dalla ricerca sull’inquietudine come un modo per rendere le esperienze VR più o meno inquietanti, a seconda dell’obiettivo dell’esperienza.
La scoperta che la personalità di una persona è un fattore determinante serve a ricordare che un approccio “taglia unica” alle nuove tecnologie potrebbe non funzionare così bene e consentire all’utente di calibrare la propria esperienza in base ai livelli di comfort percepiti.
Comprendere come il meccanismo di inquietudine si innesca e come si modula potrebbe fornire utili informazioni e raccomandazioni per la progettazione delle future tecnologie.
Bibliografia
- McAndrew & Koehnke, On the nature of creepiness, New Ideas in Psychology, Volume 43, 2016, Pages 10-15,
- McAndrew, F. T., Doriscar, J. E., Schmidt, N. T., & Niebauer, C. (2024). Explorations in Creepiness: Tolerance for Ambiguity and Susceptibility to “Not Just Right Experiences” Predict the Ease of Getting “Creeped Out.” The Journal of Psychology, 1–20.
- Raff, Rose, Huynh, Perceived creepiness in response to smart home assistants: A multi-method study, International Journal of Information Management, Volume 74, 2024,
- Rodriguez McRobbie, October 29, 2015, On the Science of Creepiness, A look at what’s really going on when we get the creeps; Smithsonian Magazin, science section
- Rosenthal-von der Pütten, Krämer, Maderwald, Brand and Grabenhorst, 2019, Neural Mechanisms for Accepting and Rejecting Artificial Social Partners in the Uncanny ValleyJournal of Neuroscience 14 August 2019, 39 (33) 6555-6570