“Gli uomini non piangono, le donne sì, poiché sono più sensibili”.
Questi ed altri stereotipi di genere hanno perpetrato la convinzione che le donne siano più empatiche e amorevoli degli uomini non solo nei confronti dei propri cari ma anche verso sconosciuti.
Per empatia si intende la capacità di comprendere le emozioni e il punto di vista di un’altra persona ed utilizzare questa comprensione per guidare l’azione futura. Questo processo comporta l’attivazione di funzioni complesse su molti livelli, per quanto le neuroscienze ci abbiano insegnato che essa è parte del corredo genetico della nostra specie ed è probabilmente uno dei motori più potenti dell’evoluzione.
Le componenti dell’empatia sono state per la prima volta individuate, approcciando una visione multidimensionale, da Norma Feshbach. L’empatia per la Feshbach associa elementi cognitivi e affettivi ed è costituita da tre componenti: la capacità di decodificare gli stati emotivi degli altri, la capacità di assumere il ruolo e la prospettiva dell’altro e la capacità di rispondere affettivamente alle emozioni provate dagli altri. Le prime due componenti sono abilità cognitive, mentre la terza associa l’empatia ad una sfera affettiva ed emotiva.
Oltre alla componente cognitiva e a quella affettiva, secondo Hoffman l’esperienza empatica è composta da un terzo fattore: la componente motivazionale. Sentire empatia per una persona che sta soffrendo, infatti, rappresenterebbe una motivazione per mettere in atto comportamenti di aiuto e attivare condotte di accudimento e cura. L’effetto motivante dipende dal fatto che condividere l’emozione dell’altro, proteggerlo, fa provare a chi aiuta uno stato di benessere, mentre la scelta di non aiutare l’altro porterebbe con sé un senso di colpa.
Ovviamente questi processi maturano con l’età e sono influenzati dall’ambiente di sviluppo e dalla cultura di riferimento. La capacità di potersi immedesimare negli altri è data dalla biologia, gli effetti di tale capacità sono dati dalla cultura (Tomasello, 2005).
I processi legati all’empatia motivano dunque il comportamento prosociale (ad esempio, la condivisione, il conforto e l’aiuto) e la cura di altri, per inibire l’aggressività e per fornire le basi per un’“etica della cura” (Gilligan 1982). Alcuni studi hanno voluto quindi indagare la relazione tra moralità ed empatia, poiché questi complessi processi attivano i medesimi circuiti cerebrali.
Alcune ricerche dimostrano che le regioni del cervello che sostengono la morale condividono le risorse con circuiti che controllano altre capacità, come la salienza emozionale, la comprensione di stati mentali altrui e i processi decisionali.
L’identificazione della cura e dell’amorevolezza come importanti domini della moralità ha stimolato l’interesse per le differenze di genere nei comportamenti prosociali. Secondo i teorici di socializzazione di genere (Gilligan, 1982; Maccoby & Jacklin, 1974; Whiting & Edwards, 1988), le ragazze, più che i ragazzi, sono incoraggiate a manifestare comportamenti amorevoli e di cura.
Il processo inizia presto nella vita attraverso pratiche specifiche di genere da parte dei genitori, di altri membri della famiglia, dei coetanei, di altri adulti e attraverso politiche istituzionali. Ad esempio, le ragazze potrebbero essere elogiate o incoraggiate a mostrare premura ed esprimere la tristezza nei confronti di qualcuno che soffre mentre i ragazzi potrebbero essere puniti o derisi per i medesimi comportamenti.
L’impatto di tali esperienze di genere sui comportamenti prosociali si accumula e si intensifica nel tempo (Fabes et al., 1999). Per questo molti studi sull’empatia e sulla coscienza morale si sono orientati a rilevare le differenze di genere, confermando spesso il pregiudizio che le femmine siano più capaci di empatia e comportamenti prosociali rispetto ai maschi, tuttavia un recentissimo studio (Baez et al., 2017) ha voluto mettere in discussione i risultati degli studi fin qui condotti.
Sono stati costruiti due studi: il primo, che proponeva un compito sperimentale che elicita risposte automatiche al dolore altrui, insieme ad un compito che stimola un dilemma morale; nel secondo studio venivano aggiunte misure ottenute da questionari self-report ai risultati derivati dagli esperimenti. I risultati indicano che le differenze di genere riguardo all’empatia non sono onnipresenti; emergono piuttosto in condizioni specifiche. Con le misurazioni relative ai compiti sperimentali le differenze sono risultate minime, mentre con l’aggiunta delle misure self-report il divario tra i generi è risultato molto visibile.
Come previsto dagli autori le prestazioni diverse nei compiti di empatia sperimentale e nelle misure self-report possono riflettere le differenze di genere di quanto donne e uomini vogliano apparire o meno empatici. Anche se non esistono differenze intrinseche nei livelli di empatia tra i generi, le donne potrebbero supporre che si preveda che si ritraggano come più empatiche, favorendo in tal modo l’elevazione dei punteggi alle misure self-report dei comportamenti empatici e prosociali. Invece, gli uomini potrebbero astenersi dal descriversi come amorevoli e sensibili.
Pertanto, le domande degli strumenti di self-report possono indurre risposte influenzate dall’identificazione dei partecipanti con gli stereotipi. Le donne, infatti, potrebbero pensare che ci si aspetti da loro un certo grado di empatia e di moralità che, qualora non presente, potrebbe suscitare giudizio da parte dell’altro e conseguente senso di colpa, mentre per l’uomo potrebbe essere più semplice accettare questo senso di colpa per una reazione scarsamente empatica poiché non sarebbe un’abilità espressamente richiesta.