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IPSICO, Firenze

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La trappola dell’evitamento. Come affrontare le paure con l’esposizione

La trappola dell'evitamento

Percezione di pericolo: reazione fight or flight

Com’è noto sulla base dell’esperienza comune tendiamo ad evitare ciò che ci fa paura. Questo meccanismo automatico di protezione, evoluzionisticamente determinato, è adattivo e funzionale a proteggerci dal pericolo.

Quando ci troviamo di fronte ad uno stimolo, il nostro cervello effettua un’immediata valutazione di esso, attribuendogli una connotazione di positività/ negatività/ neutralità e, contemporaneamente, passa ad una valutazione delle risorse disponibili a fronteggiare l’eventuale minaccia.

Da un bilancio tra queste due valutazioni cognitive deriva l’attivazione emotiva (il livello di arousal): maggiore sarà la discrepanza percepita tra pericolosità e risorse, maggiore sarà la portata di emozioni forti e negative.

Questo processo di elaborazione e valutazione del pericolo attiva il sistema nervoso simpatico, con il suo meccanismo di attacco-fuga (fight or flight), grazie al quale l’organismo avvia una serie di reazioni neurochimiche e biologiche. Queste sono finalizzate a fronteggiare la minaccia oppure, se valutata troppo grande rispetto alle proprie possibilità, a fuggire da essa. Di conseguenza:

  • aumenta il ritmo della respirazione per ossigenare maggiormente il sangue;
  • aumentano la frequenza cardiaca e la pressione per permettere al cuore di pompare più velocemente e portare energia ai muscoli di gambe e braccia;
  • si ha contemporaneamente una vasodilatazione delle arterie coronariche e muscolari e una vasocostrizione cutanea per ridurre il rischio di emorragia in caso di ferite;
  • si mobilitano le difese immunitarie;
  • si liberano gli zuccheri per ottimizzare l’apporto di riserva energetica;
  • la digestione rallenta per risparmiare energie preziose.

Ansia anticipatoria

Negli esseri umani la capacità di previsione e anticipazione permette una valutazione dello stimolo pericoloso ancora più raffinata, con la possibilità di precorrere il pericolo effettivo. Ecco allora che, in aggiunta alla reazione di paura di fronte ad una minaccia reale e attuale, si sperimenta anche un’altra emozione, definita ansia, o più precisamente ansia anticipatoria.

Prima ancora che lo stimoli si presenti, l’organismo inizia a mobilitarsi a livello fisiologico, emotivo e cognitivo, con tutta una seria di pensieri e immagini negative e catastrofizzanti.

Se consideriamo il fatto che, per un essere umano, il pericolo non è rappresentato soltanto da ciò che minaccia l’integrità e l’incolumità fisica (come l’attacco di un animale feroce, l’essere investiti da un’auto, essere colpiti da un’arma da fuoco, ecc…) ma anche da ciò che minaccia il benessere psicologico e la propria immagine e desiderabilità sociale, comprendiamo bene quanto il nostro sistema sia sottoposto a condizioni di sollecitazione e distress continuo.

La reazione di attivazione di fronte al pericolo è infatti molto costosa in termini fisici e psichici e genera nell’organismo un notevole livello di disagio, che la persona tenderà istintivamente a voler abbassare o estinguere completamente il prima possibile.

Evitamento e sollievo percepito: il rinforzo negativo

Quando ci allontaniamo da uno stimolo minaccioso percepiamo immediatamente una sensazione di sollievo e allentamento dell’attivazione fisiologica e psicologica. Questo accade anche quando decidiamo di evitare una situazione futura che abbiamo già valutato come pericolosa e di fronte alla quale sperimentiamo un notevole livello di ansia anticipatoria.

Pensiamo, ad esempio, all’ansia che proviamo all’idea di sostenere una prova scolastica, un esame universitario o una performance in ambito lavorativo che per noi è molto importante e alla quale teniamo particolarmente. Subito ricorderemo la sensazione fisica di chiusura allo stomaco, tensione muscolare, pensieri catastrofici e agitazione.

Se in quel momento di ansia elevata ci imbattiamo nell’idea di trovare una via di fuga ed evitare tale performance, subito sperimentiamo una sensazione di sollievo e leggerezza: questa immediata sensazione di liberazione, rispetto all’ansia precedente, è quella che viene indicata come rinforzo negativo.

Probabilmente, le volte successive in cui saremo chiamati a sostenere la stessa performance, ricorreremo alla stessa strategia, perché abbiamo imparato che essa funziona in maniera infallibile nell’aiutarci a stare meglio. Saremo portati a credere che l’unico modo per affrontare la sensazione di disagio sia ricorrere all’evitamento.

Si è così generato un apprendimento secondo il meccanismo del cosiddetto condizionamento operante, o strumentale, in base al quale siamo portati a replicare un comportamento che ci porta un beneficio (rinforzo). In questo caso, il rinforzo è di tipo negativo, perché ci sottrae da una condizione negativa e spiacevole, quale appunto l’ansia di cui abbiamo parlato sopra.

L’evitamento dunque è estremamente efficace nel breve termine, perché ci permette di sperimentare un repentino abbassamento del livello di ansia e attivazione fisiologica. Ma può rivelarsi molto disfunzionale nel lungo termine, perché ci porta ad evitare situazioni importanti per noi, per la nostra vita e per la nostra realizzazione personale, portandoci a credere che non saremo mai in grado di affrontare la nostra sfida.

Ecco perché, nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale, l’evitamento e il rinforzo negativo che ne deriva sono considerati fattori di mantenimento di un problema.

Evitamento e perdita di libertà  

Quanto esposto finora ci aiuta a comprendere l’importanza di tornare a riconquistare gradualmente quella libertà di movimento e di azione che alcuni disturbi, come ad esempio le fobie, possono rubare alla vita di una persona.

Tanta parte della terapia di tipo cognitivo-comportamentale si basa proprio su questo aspetto, sull’accompagnare il paziente ad esporsi nell’affrontare stimoli ansiogeni e situazioni di vita diventate “proibitive” perché percepite come minacciose.

Molto spesso lo stimolo in questione, sebbene per sua natura possa essere neutro o addirittura positivo, diventa negativo e minaccioso in seguito ad alcune esperienze di vita avverse, o propriamente traumatiche, che lasciano una “traccia emotiva” nella memoria della persona, suscitando reazioni di forte distress e assumendo, da quel momento in avanti, una valenza negativa, secondo il principio del cosiddetto condizionamento classico.

Dopo che uno stimolo è diventato negativo per condizionamento, il meccanismo di condizionamento strumentale citato prima, e il conseguente rinforzo negativo, indurranno la persona a credere che tale stimolo ansiogeno non possa in alcun modo essere affrontato se non con l’evitamento o con l’aiuto dei cosiddetti comportamenti preventivi, cioè strategie utilizzate come aiuti, “stampelle”, per fronteggiare una situazione difficile.

L’evitamento nell’ansia sociale (o fobia sociale)

Prendiamo come esempio il disturbo di ansia sociale, che ha come tema principale il timore del giudizio altrui e la paura di rendere visibili i sintomi di attivazione fisiologica legati all’ansia stessa e alla vergogna, quali rossore, tremore, sudorazione, balbettio, manifestazioni di goffaggine e imbarazzo.

La persona che soffre di disturbo di ansia sociale teme anche le situazioni sociali più comuni ed è probabile che tale difficoltà sia nata da esperienze di vita negative, in cui la manifestazione di tale sintomatologia ha procurato giudizi sociali realmente molto dolorosi.

Da quel momento la persona avrà iniziato a sviluppare nella sua mente delle credenze negative e catastrofiche (ad esempio: “Tutti noteranno il mio rossore e mi giudicheranno come uno sfigato”) e tenderà così ad evitare le situazioni in cui è probabile incorrere nel giudizio sociale, soprattutto quelle che presentano caratteristiche simili all’esperienza passata aversa.

In alternativa, la persona potrà affrontare tali situazioni con l’aiuto di comportamenti protettivi che nascondano il più possibile il rossore del volto, quali ad esempio nascondersi dietro a sciarpe o indumenti a collo alto.

Il contro-evitamento: l’esposizione allo stimolo

La terapia cognitivo-comportamentale, dopo una prima parte di lavoro sull’origine delle credenze catastrofiche e la loro messa in discussione attraverso la ristrutturazione cognitiva, si concentra sull’esposizione agli stimoli minacciosi. Questo con l’obiettivo di far recuperare al paziente la propria libertà di movimento e di azione, notevolmente compromessa dalle limitazioni imposte dall’evitamento.

Il percorso di esposizione deve essere attentamente pianificato dal terapeuta e dal paziente affinché rispetti un principio di gradualità. In seduta viene stilata una lista di stimoli ansiogeni o situazioni emotivamente attivanti, che vengono in seguito disposti secondo un ordine gerarchico, da quello meno ansiogeno a quello più ansiogeno per il paziente, con l’accordo di iniziare le esposizioni dalle situazioni meno attivanti per passare gradualmente e progressivamente a quelle più attivanti.

Ad esempio, una persona con disturbo d’ansia sociale e difficoltà nel public speaking potrebbe trovare poco ansiogeno parlare ad un solo interlocutore, ma la difficoltà potrebbe crescere progressivamente se il numero dei presenti aumenta, se gli interlocutori presentano particolari caratteristiche (come ricoprire un ruolo di autorità), se è richiesto di parlare ad alta voce o di utilizzare un microfono davanti ad un pubblico: queste variabili rappresentano item diversi della stessa scala, ciascuno con un proprio gradiente di attivazione emotiva.

Esporsi funziona. Perché?

Gli studi descritti in letteratura scientifica e l’esperienza clinica dimostrano che l’esposizione è estremamente efficace per superare i limiti imposti da numerosi disturbi psicologici (fobie, disturbo di panico, disturbo d’ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo d’ansia per la salute e altri).

Ma per quale motivo è così efficace? Quali sono i meccanismi psicologici su cui l’esposizione fa leva? Ve ne sono diversi e, a seconda del razionale che guida l’intervento psicoterapico, il terapeuta deciderà quale sia il più opportuno.

Un primo razionale è quello che sfrutta il fenomeno dell’abituazione, basandosi sul fattore “tempo”, in termini di durata dell’esposizione. Quando veniamo attivati da un trigger, sperimentiamo immediatamente una reazione di intensa attivazione fisiologica ed emotiva, che molto rapidamente raggiunge il picco di massima intensità. Se l’esposizione al trigger continua, il nostro sistema piano piano si abituerà allo stimolo e il livello di attivazione fisiologica si ridurrà progressivamente.

La relazione tra le variabili “intensità dell’emozione” e “tempo” assume la classica forma a campana, o U rovesciata. Questo significa che, con il trascorrere del tempo, la percezione dell’emozione disturbante, una volta raggiunto il punto massimo, tenderà a scemare in pochi minuti.

Esposizione in immaginazione

Talvolta, prima di una fase espositiva nell’ambiente esterno di fronte a stimoli reali, si può iniziare da un’esposizione in immaginazione nello studio del terapeuta: il paziente viene invitato a immaginare lo stimolo avverso in ogni dettaglio, prestando particolare attenzione al livello di attivazione nella sua fase iniziale, acuta e terminale anche attraverso l’attribuzione di un punteggio (ad esempio da 0 a 10).

L’indicazione è quella di passare allo stimolo successivo solo quando lo stimolo precedente non risulterà più attivante, o il livello di attivazione sarà molto basso, quasi pari a zero.

Oltre al processo di abituazione, la procedura appena descritta può essere utilizzata anche in associazione ad un’altra tecnica chiamata desensibilizzazione sistematica.

Durante l’esposizione, nel momento di massima attivazione, il terapeuta guiderà il paziente a praticare delle tecniche di rilassamento, precedentemente apprese, con lo scopo di ottenere un contro-condizionamento, per cui il trigger inizierà ad essere associato ad uno stato di rilassamento piuttosto che di tensione.

Esposizione come esperimento comportamentale

Un altro scopo per il quale il paziente è invitato ad esporsi è quello di disconfermare eventuali credenze negative o catastrofiche.

Se, ad esempio, un paziente con disturbo d’ansia sociale crede che in contesti pubblici tutti lo osservino giudicandolo per dei sintomi ansiosi ritenuti intollerabili, si può impostare quello che è chiamato un esperimento comportamentale, per verificare la veridicità della tesi di partenza.

In questo caso il paziente, nel momento in cui si trova nel contesto pubblico temuto, come un autobus, potrebbe affrontare il suo più grande timore alzando la testa e contando il numero dei passeggeri che effettivamente in quel momento lo stanno osservando rispetto a quelli che hanno lo sguardo rivolto altrove.

Esposizione per aumentare l’accettazione e la tolleranza delle emozioni

In ultima analisi un razionale molto potente con cui la persona viene invitata ad esporsi è quello di aumentare la propria resilienza di fronte allo scenario peggiore, contrastando la credenza secondo cui affrontare le conseguenze temute sia davvero qualcosa di “intollerabile, inaccettabile”.

La persona che teme di mostrare i sintomi dell’ansia sociale di fronte agli altri, ad esempio, potrebbe fare l’esperienza di vivere la situazione temuta, come far cadere la tazzina di caffè in un bar a causa del tremore alle mani attirando l’attenzione su di sé e sul danno, oppure iniziare a balbettare e arrossire durante una conversazione, per scoprire che, sebbene qualcuno possa davvero giudicarlo come imbranato o goffo, questa non è la fine del mondo.

La vergogna, sebbene sia un’emozione realmente sgradevole, può essere tollerata: tutte le emozioni sono tollerabili. Questo tipo di esposizioni, oltre alla resilienza, aumentano anche la qualità dell’accettazione e della compassione verso se stessi.

Questi sono solo alcuni esempi di possibili applicazioni pratiche della strategia espositiva, che deve essere declinata a seconda delle difficoltà riportate, delle caratteristiche del disturbo, del funzionamento personologico del paziente e del razionale di intervento.

Deve essere proposta al momento giusto della terapia, in seguito ad altri tipi di intervento, affinché le emozioni elicitate siano percepite come tollerabili e le esperienze non risultino in qualche modo “ri-traumatizzanti” per il paziente.

Soprattutto deve essere una strategia di intervento concordata: il paziente deve conoscere e condividere il razionale sottostante e deve esserci un buon grado di alleanza terapeutica, tutti elementi imprescindibili per aumentare e mantenere la compliance al trattamento di fronte ad una proposta di lavoro che può risultare anche molto faticosa ed emotivamente impegnativa.

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Autore dell’articolo

Dott.ssa Martina Rosadoni

Psicologa Psicoterapeuta cognitivo comportamentale. Terapeuta EMDR. Lavora presso l’Istituto IPSICO di Firenze. Si occupa primariamente di disturbi di personalità, disturbi d’ansia sociale, timidezza patologica, ritiro e isolamento sociale, disturbo ossessivo-compulsivo.

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