Con queste parole di Aristotele, contenute nella sua opera “Problema XXX. Saggezza, Intelletto, Sapienza”, fu tracciato probabilmente per la prima volta nella storia un legame tra genio e follia. Una relazione che ha sempre affascinato il pensiero occidentale.
Il lavoro di Aristotele si apre con questa domanda: Perché tutti gli uomini straordinari sono melancolici?
Oggetto del Problema XXX è la melancolia come affezione patologica e disposizione temperamentale, peraltro riconosciuta dall’Autore come capace di determinare, nelle persone che ne sono affette, prestazioni fuori dal comune in vari ambiti del sapere e dell’agire umano.
Aristotele rileva come la maggior parte delle persone più eminenti del suo tempo erano affette da quella che egli stesso aveva diagnosticato come “malincolia” e presentavano caratteristiche comportamentali di chiara natura patologica, come instabilità dell’umore, impulsività, alto rischio di suicidio.
Tutti fattori che, in realtà, sono peculiari dei pazienti che soffrono di malattia maniaco-depressiva, uno dei disturbi mentali più diffusi. Questa è caratterizzata dalla presenza di forti sbalzi d’umore che possono variare, anche bruscamente, tra la felicità estrema (nota come “mania“) e la depressione grave, la “malincolia”.
Il testo, sorprendente nella sua modernità e accuratezza descrittiva, formula per la prima volta la tesi della corrispondenza tra melancolia e genio, rappresentando il primo riferimento di una lunga tradizione che dall’antichità a oggi si è interrogata sul rapporto tra la follia e l’estro, la malattia e il talento, la depressione malinconica e l’ingegno creativo.
Anche secondo Petrarca, che si si sofferma sulla questione nell’ Epistola a Zoito, “non esiste alcun ingegno se non mescolato alla follia”.
Non è semplice stabilire sino a che punto tale assunto abbia effettivo fondamento. Uno psichiatra irlandese, Michael Fitzgerald, ha sostenuto che gli “spiriti superiori” non possono non avere in qualche misura un qualche disturbo mentale.
Ne conseguì che in oltre 30 anni di attività Fitzgerald diagnosticò l’autismo e la sindrome di Asperger a circa un migliaio di persone, tra cui Mozart e Beethoven.
E molti di questi “folli” sono uomini che noi oggi studiamo sui libri di storia, di arte, di letteratura, come “artisti” o “geni”. Perché esiste un limite, un confine sottile e a volte invisibile tra genialità e follia, e i geni sono coloro che vivono proprio su quel confine, facendo della loro pazzia la loro forza.
È solo un mito o c’è del vero in questa convinzione?
Che le persone estrose e creative siano anche un poco folli è convinzione di tanti. Sia che esista una relazione o che si tratti di mere coincidenze, l’immagine della follia come risultato del genio si è ripetutamente espressa nella storia del mondo occidentale.
Il tema risveglia grande interesse soprattutto in età rinascimentale e diventa addirittura centrale durante il Romanticismo. I Romantici ritengono che la sregolatezza della passione, la stessa che in passato aveva tormentato Michelangelo e Caravaggio, alimenti al contempo il furore creativo e il tormento della pazzia.
Si riteneva che genialità e follia formassero il binomio necessario per il produrre creativo.
Durante il Positivismo, la presunta relazione tra genialità e follia viene indagata con l’intento di verificare se essa poggia su dati scientifici effettivamente riscontrabili e quantificabili.
Oggetto di interesse sono state le conclusioni cui giunse Cesare Lombroso, psichiatra italiano, padre della moderna criminologia. In uno dei suoi libri più noti, “The Man of Genius” (1889) sostiene la tesi che folle, genio e criminale risulterebbero accomunabili in quanto tipi devianti rispetto al comune.
La tendenza all’eccesso e ad uscire dai canoni avrebbe base ereditaria che contamina i discendenti delle famiglie più dotate e spiegherebbe il ricorrere nelle medesime famiglie di personalità eminenti per creatività o bizzarria.
Gli esempi nel mondo dell’arte
La pittura
Partendo dal mondo dell’arte, sono numerosi gli esempi di grandi pittori che hanno unito in sé elementi di elevata capacità creativa con aspetti di psicopatologia ben riconoscibili.
Come dimenticare Edvard Munch, l’autore del celebre “Urlo”. Proprio questo quadro, il suo più famoso, è sintomo di quell’angoscia patologica che lo perseguitò per tutta la vita: un uomo, su un ponte, in un’atmosfera irreale che suscita lo stesso sentimento di ansia e pessimismo nella società che spinse l’autore a dipingere l’opera, tanto che la prima mostra in cui fu esposto venne chiusa per lo scalpore suscitato.
Vincent Van Gogh fu l’artista folle per antonomasia: il pittore soffriva di allucinazioni, paranoie e idee suicide che si sarebbero concretizzate nel gesto estremo che, a 37 anni, lo condusse alla morte.
Egli stesso, un anno prima, in un eccesso d’ira dopo una violenta discussione con il pittore Gauguin, si era reciso l’orecchio sinistro, come testimoniato da uno dei suoi autoritratti.
Molto spesso la sua pittura è stata studiata con l’intento di scoprire come e quanto le sue turbe psichiche si siano riversate nelle opere. I suoi quadri racchiudono un mondo fatto di figure distorte, di quei colori e quelle forme che affogavano la sua mente, da lui stesso definita malata.
La prevalenza del giallo, l’uso straniante di colori e forme, è stato da taluni considerato il frutto delle sue allucinazioni e della percezione distorta della realtà.
E potremmo ricordarne ancora altri, da Salvator Dalì, tormentato dalla paranoia, a Claude Monet, la cui depressione lo ossessionò per tutta la vita.
Il mondo letterario
Ma non solo il mondo delle arti figurative comprende in sé un vasto numero di persone affette da disturbi mentali; anche la letteratura è tempestata di scrittori carichi di manie e ossessioni.
L’inglese Edgar Allan Poe cadde in un profondo stato di angoscia depressiva in seguito alla morte della moglie, aggravato anche dall’alcol che lo distrusse nei suoi ultimi anni.
La sua sofferenza si è riversata interamente nelle sue opere, classici di paura e tensioni esasperate.
Appartengono a questa schiera, tra gli italiani, anche Manzoni e Leopardi. Il primo affetto da agorafobia, talmente spaventato dalla folla e dai luoghi aperti da non uscire mai di casa. Il secondo colpito da numerosissime malattie fisiche che lo portarono alla depressione e a frequentissimi cambi di umore, passando dall’euforia alla più totale disperazione.
Anche un grande matematico moderno era affetto da disturbi psichici: John Nash, Premio Nobel per l’economia nel 1994, è stato per tutta la vita ossessionato dai fantasmi della sua mente, personaggi immaginari che gli apparivano reali.
La sua incredibile storia è diventata, nel 2001, anche un film, “A beautiful mind”, vincitore di quattro premi Oscar.
La scrittrice Alda Merini, affetta da sindrome bipolare come tanti altri scrittori, tra cui Hemingway, Woolf, Byron, ha definito la follia “una maggiore acutezza dei sensi”.
C’è del vero in questa affermazione, perché è grazie a quella follia che tutti questi uomini e queste donne sono stati in grado di percepire quel particolare necessario a risolvere problemi impossibili, a creare opere incredibili, sfruttando una sensibilità superiore, una percezione del mondo diversa.
Cosa ci dice oggi la scienza?
Oggi, la leggendaria connessione tra genio e follia non è più solo aneddotica. Ricerche recenti mostrano che questi due estremi della mente umana sono davvero collegati – e gli scienziati stanno iniziando a capire perché.
Interpretazioni sociologiche attribuiscono il legame creatività/malattia mentale a un processo di selezione nella scelta della professione.
Giacché le attività di questo tipo possono essere discontinue e quindi compatibili con le irregolarità di tali patologie, è possibile che questi soggetti sofferenti scelgano professioni che sentono a loro più confacenti.
Dal punto di vista neurobiologico, sembra che la creatività si fondi sul neuromediatore dopamina, una sostanza che si trova nella zona meso-limbica, dove si trova la parte del cervello dedito alla gratificazione (detto appunto ‘circuito della gratificazione’).
La dopamina è responsabile della nascita di stati d’animo positivi, ma anche di tutto quello che concerne alla maniacalità. “Un ampio numero di studi afferma che rispetto all’umore neutrale, lo stato d’ animo positivo (esemplificabile nella felicità) è associato con l’ incremento dell’ originalità“, sostengono Greg Murray (della Swinburne University of Technology, Hawthorn, Australia) e Sheri Johnson (della University of California, Berkeley, Stati Uniti) in un articolo di revisione sull’argomento, pubblicato su Clinical Psychological Review.
James Fallon, neurobiologo dell’Università della California-Irvine, osservando che le persone affette Disturbo Bipolare tendono ad essere creative quando escono da una profonda depressione, ha messo in relazione la fase di miglioramento dell’umore con un cambiamento anche dell’attività cerebrale che, nella fase di superamento dello stato depressivo, si spegne nella parte inferiore di una regione del cervello chiamata lobo frontale e divampa nella parte superiore di quel lobo.
Sorprendentemente, lo stesso cambiamento si verifica quando le persone hanno impeti di creatività, stabilendo quindi un nesso tra attività dei circuiti cerebrali e performances intellettive.
Il legame, però, non è lineare, perché chi soffre delle forme maniacali più gravi è meno capace di generare creatività rispetto a chi soffre di forme più leggere.
Insomma, per essere creativi bisogna essere folli, ma non troppo. Solo un leggero tocco di maniacalità.
Creatività e follia hanno le stesse radici genetiche?
Vari studi epidemiologici hanno osservato che tra i familiari di persone che soffrono di disturbi psichici, come il disturbo bipolare o la schizofrenia, ci sono più artisti, che siano musicisti o pittori o scrittori, che nella popolazione normale.
Potrebbe esserci una radice genetica comune in questi processi cognitivi? È stata questa l’ipotesi di partenza di varie ricerche, tra le quali si segnalano quella condotta in Islanda da Kari Stefansson, che, nello studio pubblicato su “Nature Neuroscience” nel 2015, ha riscontrato che i soggetti portatori delle varianti genetiche più comunemente associate a disturbi mentali hanno anche una maggiore probabilità di essere artisti, in particolare attori, ballerini, musicisti, fotografi e scrittori.
Anche una ricerca del Karolinska Institute di Stoccolma pare trovare una relazione tra queste due dimensioni dell’individuo. Lo studio, pubblicato sul “Journal of Psychiatric Research”, è molto lungo e approfondito.
È stato condotto su ben 1,2 milioni di pazienti in Svezia, insieme ai loro parenti (arrivando ai cugini di secondo grado) ed è durato ben quarant’anni. I risultati hanno evidenziato in particolare per gli scrittori un maggior rischio di disturbi psichiatrici, di dipendenze da alcol e droga e di suicidio. Tutto ciò rimanda all’immagine dello scrittore alienato immerso in un mondo fittizio il cui comportamento precipita nella follia come il protagonista di Shining, interpretato al cinema dal magistrale Jack Nicholson.
Al di là dei numeri e delle statistiche appare il fatto che PENSARE FUORI DAGLI SCHEMI è il paradigma di chiunque si caratterizzi come un innovatore nelle arti e nella scienza.
Una caratterizzazione a volte così marcata da generare lo stereotipo dello “scienziato pazzo” o dell’artista “strambo”, persone talmente prese dalla loro opera da dimenticarsi del mondo circostante.
Del resto, se come dice un vecchio adagio “nessuno da vicino è normale”, forse gli artisti lo sono meno di tutti.