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La violenza nei media: effetti sull’attività cerebrale

La rappresentazione della violenza o di scene che rimandano a condotte aggressive è un qualcosa che ha sempre accompagnato l’uomo nella sua storia.

Nella Grecia antica acquistò addirittura un valore curativo. Fu Aristotele a descrivere nella Poetica il processo liberatorio e di distacco dalle passioni, utile all’umanità, mediante la rappresentazione di vicende caratterizzate dalle tinte forti della tragedia: la Catarsi.

Se fosse tra noi Aristotele riconfermerebbe la sua idea di catarsi?

Quale sarebbe stato il pensiero aristotelico oggi a proposito della massicccia presenza di contenuti violenti nei media resterà per sempre un mistero. Di certo non è un mistero il dibattito che ha suscitato l’uscita del film “Arancia meccanica” di Kubrick.

Era il lontano ’71 e all’epoca la rappresentazione della violenza, nelle sue varie forme, era limitata alle sale cinematografiche, a un ambiente che si collocava al di fuori della quotidianità domestica, e che poteva permettere allo spettatore di scegliere se assistere o meno alla rappresentazione.

Oggi lo scenario è cambiato: le immagini violente dei media irrompono nelle abitazioni non consentendo allo spettatore di scegliere se assistere o no né di prepararsi emotivamente ai contenuti.

Il buon senso ci porta a pensare che non sia un toccasana per la salute mentale, ma sembra che poco importi: si continua così e basta.

Cosa comporta a livello cerebrale l’esposizione a scene violente osservate attraverso i media?

Una risposta ha cercato di fornirla il gruppo di ricerca newyorkese di Nelly Alia-Klein andando a confrontare le reazioni cerebrali alla visione di filmati violenti in un gruppo costituito da soggetti che avevano avuto in passato condotte aggressive con quelle di un gruppo di soggetti che non avevano mai manifestato questo tratto.

La domanda interessante era la seguente: i due gruppi rispondono in maniera analoga alla visione di video con scene violente?

Ciò che è emerso è che i soggetti con storie di condotte aggressive manifestavano, durante la visione dei video, una minore attività cerebrale a livello della corteccia orbito-frontale, un’area questa coinvolta nei processi di auto-controllo e nei processi decisionali collegati alle emozioni. Fenomeno questo che non è stato osservato nei soggetti non aggressivi.

Nelle fasi di intervallo tra un video e l’altro, quando cioè non venivano proiettate immagini o scene – in una condizione di riposo – i soggetti aggressivi presentavano un’insolita iperattività nelle regioni del Default – Mode Network (DMN); anche questo dato non è stato rilevato nei soggetti non aggressivi.

Per DMN si intende un circuito che connette differenti sistemi cerebrali caratterizzato da un’elevata e coerente attività metabolica o flusso ematico durante il riposo in stato di veglia, che rappresenterebbe una processazione interna ed auto-referenziale.

Il dato rilevato dal confronto suggerisce che i soggetti con tratti aggressivi abbiano di base una mappa di funzionamento cerebrale differente rispetto a chi non presenta tali tratti.

Durante la proiezione di scene violente i soggetti aggressivi riferivano di sentirsi ispirati e meno irritabili del solito. Inoltre, i loro livelli di pressione arteriosa decrescevano durante la proiezione delle immagini. Nei soggetti non aggressivi accadeva l’inverso: i valori pressori aumentavano e le immagini suscitavano sentimenti di inquietudine.

Quello che ci dice questo esperimento è che soggetti con tratti aggressivi di base processino le immagini violente dei media in modi differenti rispetto a chi non ha tratti simili.

L’impatto che le scene violente hanno sul pubblico dipende dalla struttura cerebrale dello spettatore e dai suoi tratti di personalità. Si potrebbe ipotizzare che l’effetto di video violenti sia quindi maggiore nei soggetti aggressivi, con una tendenza slatentizzante sull’aggressività.

Allo studio di Alia-Klein va riconosciuto il merito di aver riportato l’attenzione su un tema particolarmente odierno e serio, con il rigore di uno studio scientifico.

Non fornisce risposte – ovviamente perchè non era tra gli obiettivi – su cosa accade quando lo spettatore è un bambino e cosa comporta a lungo termine, nelle varie fasce d’età, questa costante esposizione.

A mio avviso accadrà come per tante altre cose: si aspetterà che col tempo si osservino i danni a lungo termine per iniziare a rifletterci in modo più articolato con sedi e figure competenti e non nei dibattiti da talk show o nell’intervista all’opinionista del momento.

Ben vengano gli studi di neuroscienze che riportano l’attenzione sul fenomeno.

Resta la constatazione che qualsiasi studio scientifico non potrà mai sostituire le riflessioni etiche sugli schemi di valore: e purtroppo l’amara constatazione è che sono queste ultime a mancare.

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Autore dell’articolo

Dott. Michele Conte

Medico Chirurgo, specialista in Psichiatria, psicoterapeuta. Da circa 20 anni psichiatra nel Servizio Sanitario Nazionale; responsable del Centro Diurno del Distretto 8, USL Centro Firenze. Docente di Psicopatologia, Psichiatria e Psicofarmacologia presso la scuola di specializzazione quadriennale istituto IPSICO. Autore di circa 50 pubblicazioni, su riviste nazionali e internazionali, riguardanti aree psicopatologiche, psicofarmacologiche ed epidemiologiche. Profilo linkedin

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