La tolleranza inversa, o sensibilizzazione, rappresenta un fenomeno neurobiologico controintuitivo, in cui l’efficacia (effetto percepito) di una sostanza aumenta con l’uso ripetuto, anche a dosaggi costanti o decrescenti. Esattamente il contrario di ciò che accade nella tolleranza “classica”, uno dei più distintivi criteri della dipendenza patologica.
La sensibilizzazione si manifesta pertanto quando, a parità di dose, la risposta fisiologica o comportamentale a una sostanza è più marcata rispetto alle prime assunzioni.
Si tratta di un adattamento cerebrale e sistemico che può derivare da modificazioni nei circuiti del piacere e della motivazione, danni organici (come nel caso del fegato nell’alcolismo cronico), o condizioni psicologiche e ambientali predisponenti.
Un esempio clinico: l’alcolista cronico
Un paziente con lunga storia di consumo alcolico può ubriacarsi con quantità di alcol molto inferiori rispetto al passato. Questo può essere dovuto a un danno epatico cronico, che rallenta il metabolismo dell’alcol, ma anche a una sensibilizzazione dei circuiti cerebrali che gestiscono la gratificazione.
È proprio in questi casi che la tolleranza inversa diventa un campanello d’allarme per una fase avanzata della dipendenza e per un possibile rischio di intossicazione acuta.
Il paradosso della sensibilizzazione
La tolleranza inversa è stata osservata in diverse sostanze psicoattive: cocaina, amfetamine, oppiacei, alcol e cannabis.
Le evidenze mostrano come l’uso intermittente di una sostanza (unitamente ad altri fattori di vulnerabilità che vedremo più avanti) possa portare a una maggiore reattività del sistema dopaminergico, in particolare del circuito mesolimbico.
Questo, a sua volta, porta a due effetti rilevanti:
- un aumento del “wanting” (desiderio compulsivo);
- una maggiore salienza degli stimoli associati alla sostanza.
In pratica, luoghi, persone, emozioni e perfino orari specifici possono attivare il craving in modo intenso e incontrollato, in una modalità ancora più forte che quella che già si osserva nel caso di dipendenze caratterizzate dalla tolleranza “classica”.
Cause e fattori di rischio
La letteratura individua come possibili fattori di rischio per lo sviluppo di dipendenze connotate dal fenomeno della tolleranza inversa i seguenti:
- Uso intermittente ad alte dosi (tipico della fase iniziale di abuso, ma anche prototipico di alcuni stili di consumo);
- Stress cronico (che altera i circuiti dopaminergici);
- Presenza di malattie (come epatopatie, patologie neurologiche o psichiatriche);
- Accumulo nel corpo (ad esempio, il THC della cannabis);
- Cross-sensibilizzazione tra droghe diverse.
Implicazioni cliniche: che cosa cambia nella pratica?
Rischio aumentato di intossicazione e overdose
Quando un paziente sviluppa tolleranza inversa, può incombere in effetti gravi anche con dosi precedentemente considerate sicure. Questo primo elemento rende pertanto cruciale:
- Monitorare con grande attenzione il dosaggio delle sostanze/farmaci di uso/abuso (es. benzodiazepine);
- Educare pazienti e familiari sui possibili segnali di allarme (tremori, agitazione, confusione anche con piccole quantità).
Prevenzione della ricaduta
La sensibilizzazione è persistente nel tempo. Anche dopo mesi di astinenza, basta un’esposizione minima ad un trigger per:
- Riattivare violentemente i circuiti della ricompensa;
- Indurre craving intenso;
- Precipitare una caduta.
Valutazione multidimensionale dell’utente
In fase di assessment, è importante:
- Non presumere una tolleranza “classica” in utenti cronici;
- Valutare la funzionalità epatica, lo stato neuro-cognitivo e il livello di stress cronico;
- Considerare fattori epigenetici e la storia familiare di dipendenze.
Implicazioni specifiche per la psicoterapia
Craving e ricaduta: un fenomeno di memoria affettiva
L’intensificazione della risposta agli stimoli associati alla sostanza rende il craving un’esperienza altamente emozionale e difficile da gestire.
Nella pratica terapeutica è quindi fondamentale aiutare il paziente a riconoscere i propri trigger interni ed esterni, decostruire le aspettative che ha costruito intorno alla sostanza e creare nuove strategie di regolazione affettiva più funzionali.
Lavorare su questi aspetti significa costruire un nuovo “linguaggio del desiderio”, dove non tutto ciò che attiva deve necessariamente essere seguito da un’azione compulsiva.
La sensibilizzazione, infatti, potenzia il craving non tanto in risposta alla sostanza, ma ai suoi correlati simbolici e relazionali. Questo richiede un lavoro terapeutico centrato su:
- identificazione precoce dei trigger emotivi e contestuali;
- esplorazione delle memorie implicite associate all’uso;
- promozione di un riapprendimento emotivo, attraverso esperienze sostitutive e regolatorie.
Illusione di controllo e vulnerabilità al ritorno d’uso
Spesso chi ha sviluppato tolleranza inversa sottovaluta i rischi connessi all’assunzione, anche minima.
Il terapeuta ha il compito di accompagnare il paziente in un percorso di consapevolezza del proprio funzionamento, facilitando una lettura critica delle proprie credenze e fantasie di invulnerabilità.
Si tratta di offrire una narrazione alternativa che tenga conto dei cambiamenti neurocomportamentali in atto, cercando di fornire il razionale neurobiologico di questo pattern ricorsivo.
Il paziente che comprende e interiorizza queste nozioni, infatti, acquista un grado di libertà maggiore rispetto alla propria “compulsività” nel ricorso alla sostanza d’abuso. Saranno dunque elementi imprescindibili:
- Una psicoeducazione attenta, che spieghi come l’effetto amplificato non sia segno di stabilità ma di vulnerabilità;
- Un lavoro sulla discrepanza cognitiva tra desiderio e consapevolezza delle conseguenze;
- Una esplorazione delle fantasie di onnipotenza tipiche della fase pre-caduta.
Monitoraggio e continuità terapeutica
La tolleranza inversa non segue una curva prevedibile: può restare silente per mesi e riattivarsi improvvisamente. Per questo motivo è importante pianificare un follow-up personalizzato, sostenere pratiche di auto-monitoraggio (come diari emotivi o indicatori corporei) e promuovere la crescita di competenze metacognitive che permettano al paziente di anticipare e fronteggiare eventuali ricadute.
È quindi cruciale integrare:
- strategie a lungo termine, come follow-up distanziati ma regolari;
- sviluppo di abilità metacognitive, affinché il paziente riconosca l’intensificazione dei segnali interni;
- uso del diario emotivo come strumento di auto-monitoraggio.
Relazione terapeutica come strumento di regolazione
Per molte persone, la sostanza ha svolto a lungo una funzione regolatoria, identitaria o persino affettiva.
In questo senso, il setting terapeutico deve diventare un nuovo luogo di contenimento e trasformazione. Non solo un ambito di cura, ma un vero e proprio “ambiente relazionale” capace di accogliere la fragilità, offrire risonanza e costruire nuove modalità di risposta agli stati interni disorganizzanti.
La relazione terapeutica diventa uno spazio in cui il paziente può sperimentare un nuovo tipo di regolazione attraverso l’incontro intersoggettivo.
La ripetitività rituale delle sedute, la presenza affidabile del terapeuta e la possibilità di verbalizzare anche emozioni disturbanti offrono un’alternativa concreta alla risposta automatica del consumo.
La mentalizzazione
Nel lavoro clinico con persone sensibilizzate, è particolarmente utile utilizzare interventi che potenzino la funzione riflessiva, come la mentalizzazione, la narrazione condivisa dell’esperienza e l’esplorazione delle emozioni corporee.
La relazione terapeutica assume una funzione “co-regolatoria”, che aiuta il paziente (ma anche il terapeuta) a integrare le proprie risposte somatiche, emotive e cognitive in modo più coeso e tollerabile e a scegliere in modo meno reattivo la propria risposta comportamentale.
Se questo è vero per tutti i percorsi psicoterapici, e quindi anche per il trattamento di tutte le forme di dipendenza patologica, lo è ancor più per quelle forme di dipendenza che sono caratterizzate dalla dipendenza inversa, dove la reattività compulsiva all’assunzione è anche aumentata rispetto ai casi di tolleranza classica.
Infine, è imprescindibile che il terapeuta riconosca il ruolo che la sostanza ha avuto nel sostenere il paziente, evitando un approccio normativo o giudicante.
Il compito terapeutico è quello di accompagnare, con rispetto e pazienza, la sostituzione progressiva della sostanza con relazioni, pratiche e significati nuovi, che rendano la dipendenza obsoleta non per proibizione, ma per superamento e scoperta.
Conclusione
La tolleranza inversa offre uno sguardo prezioso sulla complessità delle dipendenze. Si tratta di un fenomeno che intreccia neurobiologia e funzionamento psicologico.
Intercettarla e comprenderla consente di intervenire con maggiore efficacia, prevenire le ricadute e restituire al paziente una capacità riflessiva e regolatoria più stabile e duratura.
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