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Autolesionismo: cosa nasconde, perché inizia e come si può curare

autolesionismo

Che cos’è l’autolesionismo

Col termine autolesionismo ci si riferisce a tutti quei comportamenti deliberatamente orientati al provocarsi dolore fisico.

Questi comportamenti non hanno a che fare necessariamente con tentativi di suicidio o desiderio di togliersi la vita. Invece includono, ad esempio, il tagliarsi la pelle con diversi tipi di oggetti affilati, l’infliggersi bruciature e marchiarsi con sigarette o oggetti roventi.

L’autolesionismo infatti è definito come un “danno deliberato e autoinflitto al proprio corpo senza intento suicidario e per scopi non socialmente accettati” (International Society for the Study of Self Injury, 2018).

Criteri per la diagnosi di autolesionismo

Il DSM-5-TR (2022) include “Autolesionismo non suicidario” (NSSI: Not Suicidal Self Injury) come categoria diagnostica distinta. Lo definisce come una serie di atti intenzionalmente autolesivi nei confronti del proprio corpo condotti per almeno 5 giorni nell’ultimo anno.

La condotta autolesiva per essere tale deve essere preceduta da una o più delle seguenti aspettative:

  • ottenere sollievo da una sensazione/stato cognitivo negativo;
  • risolvere una situazione relazionale;
  • indurre una sensazione positiva.

Inoltre, il comportamento autolesivo deve essere associato ad almeno uno dei seguenti sintomi:

  • difficoltà interpersonali o sensazioni/pensieri/sentimenti negativi precedenti al gesto autolesivo;
  • preoccupazione incontrollabile per il gesto;
  • frequenti pensieri autolesivi.

Infine per essere tale deve provocare disagio significativo.

Cosa nasconde l’autolesionismo: le cause

Autolesionismo come strategia di coping disadattiva

La messa in atto di autolesionismo consente di focalizzare la propria attenzione sul dolore fisico.

Le motivazioni sottostanti la messa in atto dell’autolesionismo sono in genere relative la necessità di uscire da uno stato percepito di profondo vuoto per riconnettersi alla realtà e la gestione di stati emotivi spiacevoli percepiti come altrimenti non maneggiabili.

Il comportamento autolesionistico sposta così l’attenzione dal dolore emotivo a quello fisico, vissuto come più tollerabile.

Il dolore fisico in un primo momento allenta la tensione, generando sollievo, e allontana da esperienze emotive che non si vogliono sperimentare.

Nel tempo però ciò rischia di generare nuove esperienze emotive spiacevoli, quali colpa e vergogna per aver messo in atto il comportamento.

L’efficacia dell’autolesionismo, in relazione ad entrambe le funzioni descritte, aumenta la possibilità di rimetterlo nuovamente in atto, e quindi favorisce l’instaurarsi di circoli viziosi che mantengono il problema nel tempo.

Autolesionismo come punizione

L’autolesionismo può rappresentare anche una forma di auto-punizione: il senso di colpa e l’autocritica possono elicitare condotte autolesive in soggetti vulnerabili.

Autolesionismo come ricerca di attenzione

Il comportamento autolesionistico può rappresentare infine una modalità disfunzionale attraverso la quale ricercare attenzione, richiedere aiuto o comunicare agli altri il proprio disagio.

Un gesto estremo utilizzato al fine di urlare al mondo la propria esistenza/presenza e la sofferenza che non si è in grado di comunicare a parole.

Perchè si fa autolesionismo: i fattori di rischio

Vi sono vari fattori di rischio individuali tra cui:

  • Presenza di disturbi mentali (disturbo borderline di personalità, ansia, depressione, disturbi alimentari e disturbi della condotta)
  • Tratti temperamentali (perdita di controllo, impulsività e disregolazione emotiva)
  • Sentimenti negativi nei confronti del proprio corpo (insoddisfazione, vergogna, controllo)
  • Abuso di sostanze
  • Comportamenti internalizzanti ed esternalizzanti
  • Problemi in ambito scolastico
  • Mancanza di autostima e autoefficacia

Esistono poi dei fattori di rischio sociali:

  • Eventi stressanti
  • Esperienze di abuso (sessuale, fisico e/o emotivo)
  • Problemi familiari (negligenza e conflitti)
  • Relazioni negative con i pari (bullismo, isolamento e mancanza di supporto)
  • Messaggi presentati dai social/videogiochi/tv (assuefazione, normalizzazione, generalizzazione e incoraggiamento al comportamento autolesivo)

Autolesionismo e suicidio

Nonostante gli atti autolesionistici abbiano una natura diversa rispetto ai tentativi di suicidio, esiste un forte legame predittivo tra i primi e i secondi.

Le condotte autolesive sono più frequenti e prevedono comportamenti con conseguenze meno gravi rispetto a quelle utilizzate nei veri tentativi di suicidio. Inoltre le persone che le attuano non sono mosse dal desiderio di porre fine alla loro esistenza.

La ricerca evidenzia che le condotte autolesive sono dei fattori di rischio per il suicidio in quanto maggiormente correlati a storie di tentati suicidi. Inoltre ci sono numerosi studi che dimostrano come le condotte autolesive siano un fattore predittivo di suicidio maggiore di ripetuti e pregressi tentati suicidi.

I comportamenti autolesionistici rappresentano un fattore di rischio per il suicidio. Questo poiché con il passare del tempo possono desensibilizzare le persone dal dolore fisico aumentandone così la capacità di metterlo in atto.

Prevalenza del comportamento autolesionistico

L’autolesionismo è un fenomeno molto diffuso tra gli adolescenti (15-20%). Tale comportamento permane talvolta anche nella prima età adulta, ma ad ora non sono stati rilevati dalla ricerca molti dati sui fattori che possano influenzare il permanere del comportamento autolesionistico nel tempo.

Il comportamento autolesionistico è più elevato nella popolazione psichiatrica (disturbi dell’umore e/o disturbi d’ansia, abuso di sostanze, disturbi dell’alimentazione, disturbi dissociativi, disturbo da stress post traumatico, schizofrenia e disturbi di personalità). Spesso è associato al disturbo borderline di personalità ma in tal caso il quadro è più grave, il comportamento è ripetuto e le modalità autolesive sono varie.

Come inizia l’autolesionismo e come si mantiene nel tempo

L’indagine condotta da Kiekens G. et al. (2017), e pubblicata sul Journal of Nervous & Mental Disease, evidenzia i possibili fattori associati al permanere del comportamento autolesionistico nel tempo.

Gli autori, utilizzando i dati emersi da uno studio longitudinale durato tre anni, hanno infatti comparato i livelli di alcune variabili su un campione di 101 giovani adulti. Di questi 51 hanno continuato a mettere in atto le condotte autolesive dopo l’adolescenza. 50 invece hanno interrotto tali comportamenti.

Oltre alle caratteristiche dei comportamenti di autolesionismo, in termini di funzione svolta e gravità, lo studio valuta i livelli di molti fattori. Fattori sia interpersonali (supporto sociale percepito, supporto familiare percepito) che intrapersonali (orientamento sessuale, abilità di regolazione emotiva percepite, distress emotivo, stress accademico, autostima, soddisfazione per la propria vita).

Gravità del comportamento autolesionistico

I risultati rilevano che una maggiore gravità dei comportamenti autolesionistici attuati in adolescenza, in termini di maggiore frequenza e utilizzo di diversi metodi, era associata a una maggiore persistenza del comportamento nella prima età adulta.

È stato rilevato, inoltre, che il numero di metodi utilizzati correlava coi tentativi di suicidio molto di più rispetto alla frequenza della messa in atto del comportamento.

Funzione dell’autolesionismo

In relazioni alle funzioni svolte dal comportamento di autolesionismo, risultano rilevanti sia la presenza di conseguenze positive derivanti dall’elicitazione di arousal (eccitazione, attivazione neurovegetativa) sia la difficoltà percepita nel controllare il comportamento.

Infatti le motivazioni che si basavano su meccanismi di rinforzo positivo, come ad esempio l’ottenere una scarica di energia e la percezione di non poter resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento, erano associate alla permanenza del comportamento nel tempo.

Fattori interpersonali e intrapersonali

In relazione agli altri fattori esaminati, la persistenza del comportamento di autolesionismo nel tempo è stata trovata essere associata a maggiori livelli di distress accademico ed emotivo. Ma anche a minori livelli di supporto dei pari, soddisfazione per la propria vita, e percezione di competenza sulle proprie abilità di regolazione emotiva.

Non sono risultati essere rilevanti invece fattori quali l’omosessualità e il supporto familiare percepito, diversamente da quanto la letteratura indica come fattori rilevanti per l’attuazione del comportamento in adolescenza.

Distress emotivo e regolazione emotiva percepita

Infine, lo studio ha valutato anche il ruolo del distress emotivo e delle abilità di regolazione emotiva percepita. Tutti elementi che potrebbero mediare l’effetto degli altri fattori considerati nel mantenere il problema nel tempo.

Le abilità di regolazione emotiva percepite sono risultate essere un fattore importante per l’interruzione dell’autolesionismo. Bassi livelli di abilità di regolazione emotiva percepite (intese come presenza di credenze negative sulle proprie abilità di poter regolare le emozioni) mediavano l’effetto dei fattori “supporto sociale percepito” e “soddisfazione per la propria vita”.

Inoltre, il distress emotivo aveva un valore predittivo, per il mantenimento del comportamento nel tempo, inferiore rispetto alle abilità percepite di regolazione emotiva.

Gli autori stessi indicano quindi che la percezione di essere competenti nel regolare le proprie emozioni di fronte alle avversità risulta essere un fattore più importante rispetto ai livelli oggettivi di distress percepito.

Come si può curare l’autolesionismo: come si fa ad uscirne

Il trattamento più diffuso ed efficace per intervenire sulle condotte autolesive è la psicoterapia cognitivo-comportamentale.

L’approccio cognitivo-comportamentale prevede l’utilizzo di tecniche (ristrutturazione cognitiva e prevenzione delle ricadute) utili  ad aiutare gli adolescenti e i giovani adulti ad affrontare eventuali situazioni elicitanti l’autolesionismo.

Come emerge dall’indagine sopra citata, ad esempio, oltre alla valutazione generale delle abilità di regolazione emotiva, risulta importante rilevare la percezione che i ragazzi hanno della loro capacità di regolare le proprie emozioni. Diventa quindi importante modificare le credenze disfunzionali al riguardo, quando presenti.

Strumenti cognitivo-comportamentali quali l’analisi funzionale potrebbero essere preziosi al fine di identificare gli antecedenti e le conseguenze situazionali, cognitive ed emotive dell’atto autolesivo.

Servono a rilevare i fattori di rischio per il protrarsi del problema nel tempo (forte elicitazione di arousal positivo e messa in atto del comportamento perché ormai diventato condizionato, quindi con scarsa percezione di controllo).

Ciò consente di identificare le strategie terapeutiche più adeguate. Ciò al fine, ad esempio, di modificare le contingenze ambientali che fungono da fattore scatenante per la messa in atto del comportamento di autolesionismo e/o di apprendere nuove modalità, più funzionali, per incrementare le sensazioni positive percepite.

La ricerca infine mostra l’efficacia della Terapia Dialettico Comportamentale (DBT) nel trattamento dell’autolesionismo in soggetti con Disturbo Borderline di Personalità  Questa rivolge l’attenzione alla componente dell’accettazione/tolleranza della sofferenza al fine di ridurre la disregolazione emotiva.

Risorse di approfondimento

DA SCARICARE GRATUITAMENTE

  • Primo capitolo del volume “Superare il disturbo borderline di personalità. Guida pratica per familiari, partner e clinici” edito da Centro Studi Erickson

TESTI PER APPROFONDIMENTO SUGGERITI

  • Porr, V. (2020). Superare il disturbo borderline di personalità. Guida pratica per familiari, partner e clinici. Trento: Centro Studi Erickson

Bibliografia

Kiekens, G., Hasking, P., Bruffaerts, R., Claes, L., Baetens, I., Boyes, M., Mortier, P., Demyttenaere, K., Whitlock, J. (2017). What predicts Ongoing Nonsuicidal Self-Injury?: A Comparison Between Persistent and Ceased Self-Injury in Emerging Adults. Journal of Nervous & Mental Disease.

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Contrassegnato con: controllo degli impulsi, depressione, disturbi di personalità, personalità

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Autore dell’articolo

Dott.ssa Elena Micheli

Psicologa Psicoterapeuta presso l’Istituto IPSICO di Firenze. Terapeuta EMDR II livello, formata in Psicoterapia Sensomotoria, Terapia Metacognitiva e Acceptance and Commitment Therapy. Si occupa primariamente di disturbi di personalità, disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, psicotraumatologia e psicodiagnosi. Presso l’Istituto IPSICO di Firenze si occupa anche di progetti di ricerca e divulgazione scientifica ed è socia dell’Associazione EMDR Italia. Profilo linkedin

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